Un anno non proprio gradevole. Presente e futuro del sindacalismo di base.

Nella fase più aspra dei moti che si sono sviluppati in Kazakistan mi è avvenuto di leggere nella pletora di opinioni che illeggiadriscono Facebook commenti di compagni e compagne che paragonavano la radicalità della rivolta kazaka alla passività del proletariato italiano – ovviamente a merito di quello kazako e, soprattutto, a detrimento di quello patrio.

Per rispetto dell’intelligenza di chi legge, risparmio comparazioni sin troppo banali sulla differenza fra i due contesti, d’altro canto in nessun paese caratterizzato da un economia “sviluppata” e da un sistema politico a democrazia parlamentare risultano rivolte di massa. È però comunque interessante rilevare come una situazione come quella italiana – che pure si caratterizza per una situazione che giustificherebbe una qualche forma di mobilitazione di massa delle classi subalterne – vi sia un’obiettiva passività quantomeno del corpo centrale della classe lavoratrice a fronte di misure come la riforma delle pensioni e del fisco e in presenza di una robusta crescita della povertà assoluta, delle differenze di reddito fra le classi sociali, della disoccupazione e della precarietà. Basta, a questo proposito, far parlare lo stesso Ministero del lavoro:

In Italia l’11,8% di chi lavora è povero, e addirittura un quarto dei lavoratori italiani ha retribuzioni così basse da rischiare di diventarlo, finendo in una spirale che una volta su due è una condanna definitiva. I dati sono parte della fotografia scattata dalla commissione voluta dal ministero del Lavoro per individuare possibili soluzioni al problema. A partire dalla ridefinizione della mappa nazionale dei working poor, persone che pur lavorando rimangono al di sotto della soglia di povertà (vivono in nuclei il cui “reddito netto equivalente è inferiore al 60% della retribuzione mediana”). Una condizione che gli esperti riuniti dal ministro Andrea Orlando non imputa unicamente a salari spesso inadeguati, ma a un insieme di variabili che fanno della povertà una situazione dalla quale è sempre più difficile affrancarsi. A partire dal problema della durata dei contratti e dunque dei giorni effettivamente lavorati in un anno. Chi lavora per meno della metà dell’anno rischia di finire in povertà nel 75% dei casi, contro il 20% di chi ha un impiego per l’intera annualità. C’è poi la variabile relativa alla composizione familiare, che ancora una volta vede le donne come le più sfavorite e le più esposte al rischio povertà. E infine il problema redistributivo, alla luce del fatto che da noi solo il 50% dei lavoratori poveri è raggiunto da una forma di sostegno al reddito.”[1]

Ovviamente nel corso dell’anno passato non sono mancate mobilitazioni categoriali ed aziendali importanti ed interessanti, in particolare ma non solo nella logistica e fra i ciclofattorini: su quanto è avvenuto in questi settori sia dal punto di vista del conflitto sia da quello del quadro produttivo e giuridico usciranno sul numero 3 di Collegamenti per l’Organizzazione Diretta di Classe in preparazione materiali di analisi e riflessione.

Si tratta però, con ogni evidenza, di lotte di settori particolari della classe che non hanno direttamente coinvolto le gradi categorie del settore privato e di quello pubblico come i metalmeccanici e i lavoratori della scuola e che, piaccia o meno, non hanno il carattere di movimento generale della working class. Una considerazione analoga si può fare per le mobilitazioni dei lavoratori coinvolti dalle crisi aziendali come, per citare le più importanti, l’Alitalia e la GKN.

Sappiamo sin troppo bene che le vertenze aziendali contro i licenziamenti sono condannate a un percorso difficilissimo, costellato di lotte, contrattazioni, pressioni sul potere politico che conducono di norma, se va bene, all’ottenimento di una qualche forma di tutela per i lavoratori licenziati, a una riduzione dei licenziamenti e, in buona sostanza, alla “riduzione del danno”. In parziale controtendenza la vertenza GKN si è chiusa in maniera, nei limiti del possibile in maniera positiva:

“‘Abbiamo strappato un accordo innovativo in un contesto sociale ostile’, ha affermato Dario Salvetti, delegato della Rsu della ex Gkn. ‘Abbiamo seguito un’impostazione – ha aggiunto – collettiva e comunitaria. Per quanto riguarda la parte influenzata da noi, questo accordo trasuda responsabilità collettiva, sa di comunità. Il saldo occupazionale, la continuità di diritti che vengono conservati e tramandati, la commissione di proposta e di verifica: per noi questa fabbrica è un patrimonio del territorio e per questo continueremo a vigilare e a mobilitarci se necessario’. Tuttavia, osserva Salvetti, ‘un altro Stato, un altro governo avrebbero salvato la fabbrica con le sue macchine e le sue produzioni. Questa reindustrializzazione – che invece è lo svuotamento della fabbrica per essere riempita con altri macchinari e altre produzioni – è un processo che abbiamo subito e di cui pagheremo il prezzo con mesi di ammortizzatori e incertezze’.[2]

Chi scrive ha qualche dubbio su quanto di meraviglioso avrebbero fatto “un altro Stato, un altro governo”; è però importante quanto si è ottenuto che, rispetto ad altre situazioni, è molto e il fatto che lo si sia ottenuto con la tenuta della lotta e con la capacità di allargare la mobilitazioni ad altri gruppi di lavoratori ed a un vero e proprio movimento. Altrettanto importante è che la mobilitazione della GKN ha suscitato interesse, passione, mobilitazione e ha visto insieme, capita anche questo, settori del sindacalismo istituzionale, il sindacalismo di base e, soprattutto, accanto alla comunità proletaria costituita dai lavoratori della GKN, ampi settori di movimento e ha dato un segnale politico e culturale forte rimettendo al centro la contraddizione capitale-lavoro in un universo sociale che sembrava averla rimossa. Basta, per comprenderlo, ripensare alla grande manifestazione del 18 settembre a Firenze, alle molte altre iniziative, ai mesi di occupazione della fabbrica.

La vertenza Alitalia di ben maggior consistenza per il numero di lavoratrici e lavoratori coinvolti, non ha, al momento, avuto un esito altrettanto positivo nonostante l’impegno generoso dei lavoratori e delle lavoratrici e altrettanto si deve dire per le molte situazioni analoghe.

Passando dalle lotte aziendali e categoriali alle mobilitazioni generali, l’autunno inverno del 2021 hanno visto lo sciopero generale indetto dai sindacati di base dell’11 ottobre e quello del 16 dicembre (anticipato al 10 dicembre nella scuola) indetto da CGIL e UIL e, solo nella scuola, anche dai sindacati autonomi e da CUB e Cobas. Sullo sciopero dell’11 ottobre UN ha già pubblicato diversi articoli e ritengo, a distanza di alcuni mesi, che non si possa che ribadire il giudizio positivo che è stato dato allora, sia per il fatto che è stata un’iniziativa unitaria come non si vedeva da anni sia per il coinvolgimento di settori di movimento e il buon numero di manifestazioni che furono organizzate. È però evidente che si trattava di uno sciopero di settori di avanguardia della classe che se aveva rispetto alle lotte particolari il pregio di indicare una prospettiva generale non aveva, piaccia o meno, la forza di colpire adeguatamente padronato e governo.

Vale la pena, a mio avviso, di ragionare sullo sciopero generale del 16 dicembre di CGIL e UIL e su quello della scuola del 10 dicembre. Come capita abbastanza regolarmente, i dati sull’adesione allo sciopero forniti dal governo, dal padronato e dai sindacati organizzatori divergono in misura rilevantissima. Chi scrive non ha ovviamente alcuna simpatia per i gruppi dirigenti di CGIL e UIL, nondimeno non considera positivo il fatto che siano più attendibili i dati padronali rispetto a quelli sindacali. Basta, a questo proposito, rilevare che CGIL e UIL non hanno ritenuto di organizzare mobilitazioni diffuse sul territorio per rendersi conto che i loro dirigenti erano convinti in anticipo che lo sciopero non avrebbe avuto una grande adesione. Per fare un solo esempio, lasciare scoperta una piazza storicamente e simbolicamente importante come quella torinese per concentrarsi su Milano è stato un segno di debolezza straordinario. Lo sciopero del 16 e quello del 10, insomma, sono andati male, molto male e, nello stesso tempo hanno determinato tensioni sia all’interno dello stesso sindacalismo istituzionale che fra CGIL e UIIL da una parte e il partito politico di riferimento, il PD, dall’altra.

Quando Luigi Sbarra, Segretario Generale della CISL affermava: “La Cisl considera sbagliato ricorrere allo sciopero generale e radicalizzare il conflitto in un momento tanto delicato per il Paese, ancora impegnato ad affrontare una pandemia che non molla la presa e teso a consolidare i segnali positivi di una ripresa economica e produttiva che necessita di uno sforzo comune per essere resa strutturale. Tanto più considerati i rilevanti passi avanti fatti nell’ultimo mese sui contenuti della legge di bilancio. Risultati che valutiamo in modo positivo e che garantiscono avanzamenti su riduzione delle tasse ai lavoratori e pensionati, risorse per gli ammortizzatori sociali e contratti di espansione, maggiori stanziamenti per la sanità, importanti risorse per non autosufficienza, pubblico impiego, assegno unico per i figli, uniti all’ impegno forte assunto dal Governo di aprire al più presto un confronto con il sindacato sulle rigidità della Legge Fornero e di accelerare la riforma fiscale” confermava certamente una vocazione filogovernativa della CISL e rendeva chiaro anche le difficoltà che aveva trovato la CGIL a indire lo sciopero nel tentativo, appunto, di tirare dentro la stessa CISL.

Nello stesso tempo Enrico Letta, Segretario del PD dichiarava, coerentemente alla collocazione governativa del suo governo: “I sindacati fanno il loro mestiere. Lo sciopero generale? Non me l’aspettavo. Si è realizzata la più grande riduzione di tasse sul lavoro mai fatta prima. Io ritengo che la legge di Bilancio che il governo ha presentato, che è stata aggiustata e sarà migliorata in Parlamento, sia una legge equilibrata per il Paese, interviene su temi sensibili come la non autosufficienza”.

Nei fatti la CGIL si è trovata isolata proprio nel “suo” campo senza avere la forza né la determinazione a costruire una mobilitazione dal basso efficace e tale di rovesciare il tavolo. Al contrario la gestione dello sciopero è stata simile al disbrigo di una pratica burocratica, non vi è stata una campagna di massa che lo preparasse ed è legittima la sensazione che sia servito all’apparato sindacale per avere un argomento da opporre alle critiche che riceve dalla parte più militante della sua base a cui può rispondere che ci ha provato, che i lavoratori non sono disposti alla lotta e che non resta che contrattare come si sa e come si può gli arretramenti. Resta a futura memoria la stizzita risposta di Maurizio Landini, Segretario Generale della CGIL ad Enrico Letta: “Ho la sensazione che la maggioranza e il sistema dei partiti non si stanno rendendo conto, e lo dico con giustificato motivo, della reale situazione sociale delle persone nel nostro Paese”.

D’altro canto anche nella scuola in cui lo sciopero, come si è ricordato, è stato anticipato al 10 ed ha visto l’adesione del sindacalismo autonomo di categoria e di settori del sindacalismo di base, l’adesione, in questo caso i dati ufficiali sono attendibili, è stata del intorno al 7% della categoria, una percentuale straordinariamente bassa non solo rispetto all’assieme delle lavoratrici e dei lavoratori ma anche rispetto al numero degli iscritti ai sindacati promotori.

In provvisoria sintesi, fatto salvo che, come è noto, l’acqua sul fuoco prima di bollire è ferma e che i movimenti di massa spesso sorprendono noi per primi, è evidente che in questo momento larga parte dei lavoratori e delle lavoratrici ritengono che, in una situazione di crisi come l’attuale, ogni mobilitazione generale è inefficace e che, come è altrettanto noto, siamo di fronte a di una profezia che si autoavvera.

Si tratta, di conseguenza, sul piano della riflessione di ragionare su come si può superare l’attuale impasse e, su quello dell’azione, di individuare forme di azione e di comunicazione efficaci e tali da suscitare la necessaria passione e partecipazione.

L’attenzione va posta, per un verso sulle mobilitazioni che comunque ci sono a livello aziendale e territoriale al cui interno si deve agire per sostenerle e per dare credibilmente indicazioni generali, per l’altro di tenere presente cosa stanno facendo i nostri avversari, su come la loro azione sta modificando il quadro produttivo e sociale a partire dai robusti investimenti a favore delle imprese nella prospettiva di rovesciare con la lotta la situazione, puntando su una pressione per aumenti salariali che proprio l’aumento dei profitti può stimolare e intrecciandola su iniziative contro la precarizzazione del lavoro e per il reddito individuando nell’iniziativa contro l’aumento delle bollette un primo passaggio nella direzione di una campagna più ampia per il diritto all’abitare, alla cura, ai trasporti, ai servizi. Segnali in questo senso non mancano, si tratta di coglierli.

Cosimo Scarinzi

NOTE

[1] Il Fatto Quotidiano del 18 gennaio 2022.

[2] Il Fatto Quotidiano del 22 gennaio 2022.

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